Sul commercio di semi di cannabis

Riportiamo qui di seguito un'articolo preso dal sito www.altalex.com il cui autore , Carlo Alberto Zaina è il legale dei due fermati.

Sul commercio di semi di cannabis e di strumenti per la coltivazione degli stessi Tribunale Ferrara, sez. penale, ordinanza 03.12.2008

Il Tribunale di Ferrara, adito dalle difese di numerosi indagati (destinatari di provvedimenti di perquisizione e sequestro emessi dal P.M. presso il Tribunale stesso), quale giudice del riesame di misure reali, interviene, con una pronunzia di ampio respiro e chiaro carattere interpretativo ed additivo, sulla sussistenza del delitto di cui all'art. 82, dpr 309/90, in relazione all'attività di commercio di semi di cannabis e di strumenti per la coltivazione degli stessi.

E' noto che la tematica in questione ha avuto, recentemente plurime pronunzie di merito che hanno unanimemente sancito la insussistenza del reato.

In proposito si ricordano sia la sentenza del Tribunale di Rovereto [1], che la recentissima pronunzia della Corte di Appello di Firenze del 26 Novembre u.s. (in attesa di pubblicazione) che, riformando in toto la decisione del GUP di Firenze, il quale aveva condannato il titolare di una società e di un sito internet, ha assolto l'imputato perchè il fatto non sussiste.

Entrando nel vivo del commento della motivazione addotta dal Collegio, si devono, quindi, osservare due elementi di particolare importanza.

A) LA IDENTIFICAZIONE DELL’IPOTETICA CONDOTTA

In primo luogo, il giudice del riesame fotografa con chiarezza quale tra le tre condotte “istigazione”, “induzione” e “proselitismo” debba essere, sul piano strettamente teorico, chiamata a fungere da comportamento illecito.

La rilevanza di questa specificazione non va trascurata, perchè le tre condotte summenzionate, sussunte nel contesto dell'art. 82, dpr 309/90 rivestono un evidente valore di alternatività ed indipendenza tra loro.

Ciascuna di esse, infatti, presenta peculiarità ed individualità importanti, che non si fermano all'interpretazione puramente e squisitamente lessicale, ma riverberano chiari e concreti effetti proprio in ordine al processo descrittivo dell'illecito che si assume commesso.

Così, è pacifico che l'atteggiamento di induzione, presuppone che l'attività che il soggetto pone in essere – e che è finalizzata all'uso di sostanze stupefacenti – debba rivolgersi in maniera diretta ad un numero ben determinato e limitato di destinatari del messaggio e, più in generale, della comunicazione così propalata.

Propria dell'induzione, poi, in armonia con l'individuazione dei singoli cui l'azione è diretta, è la forte caratterizzazione motivazionale dell'attività posta in essere dall'agente.

Il significato lessicale del verbo “indurre”, infatti, va riportato in tesi principale alla categoria espressa dai concetti di “forzare” e “spingere[2].

Ne consegue, dunque, la considerazione che l'agente-induttore operi, quindi, una spinta specifica e qualificata (quasi fisica si potrebbe dire) tesa univocamente a provocare uno specifico convincimento, (nonchè alla determinazione) in ordine all’uso di stupefacenti, orientando ed indirizzando consapevolmente la propria volontà nei confronti di una o più persone perfettamente individuate.

Le considerazioni che precedono ci permettono, quindi, di ritenere corretta quell’impostazione che escluda nella situazione processuale descritta l’ipotizzazione della condotta di induzione a favore di quella di istigazione.

Il Tribunale di Ferrara – espressis verbis – aderisce all’orientamento testè ricordato, facendolo proprio, senza tentennamenti ed, anzi, operando una precisa, quanto efficace sistematica dei tratti salienti il contegno istigatorio.

L’istigazione – intesa quale fomentazione di una platea indeterminata di persone – deve, a parere del Collegio, presentare il requisito della “comunicazione illecita”.

Come si legge nell’ordinanza, la propalazione può consistere “…nel fornire suggestioni, consigli e indicazioni sull’uso, nell’argomentare in maniera congrua e convincente sull’opportunità e desiderabilità della condotta vietata descritta come valore positivo”.

E’, quindi, la predisposizione e la concertazione di un’attività finalizzata e destinata a conferire valenza di accettabilità e di favore ad un comportamento (l’assunzione di sostanze stupefacenti), che per quanto non penalmente punibile – pur a precise condizioni – costituisce, senza dubbio, elemento oggettivamente di disvalore e latamente antigiuridico (si pensi alle previsioni di cui all’art. 75, dpr 309/90), che integra l’in sé dell’istigazione.

B) I CAPISALDI DELLA PRONUNZIA

Risolta la importante questione preliminare, concernente la reale condotta sussumibile nel contesto criminoso ipotizzato, cioè la qualificazione giuridica dell’azione supposta come illecita, appare, indi, decisivo l’esame della ricostruzione operata dai giudici del riesame reale, in ordine al contegno fattuale che la pubblica accusa ha – a torto - ritenuto inseribile nel contesto della previsione di cui all’art. 82, dpr 309/90.

In via assolutamente preliminare si è sancito che si verte in ambito di “mera messa in vendita di semi di canapa indiana e di altri accessori per la coltivazione della stessa”.

A parere di chi scrive, su questo specifico punto, ci troviamo di fronte all’unica imprecisione dell’ordinanza, una mera sbavatura che, peraltro, non inficia la rilevanza e l’apprezzabilità della stessa.

Va, infatti, sottolineato che i richiamati cd. accessori per la coltivazione della canapa, in realtà, presentano caratteristiche di indubbia fungibilità, venendo e potendo essi essere utilizzati, indistintamente, per qualsiasi tipologia di coltivazione.

Tali strumenti, infatti, non presentano alcun profilo di destinazione specifica o caratteristiche che possano indurre a ritenere la destinazione in rapporto pertinenziale esclusivo alla coltivazione di piante di cannabis.

E’, dunque, importante sottolineare questo passaggio fattuale, perché esso assume connotato di rilevanza, al fine di dimostrare che la coltivazione della cannabis – diversamente da quanto sostenuto in varie sedi anche politiche e giurisprudenziali - non richiede forme e modalità tecniche di minima specificità, ma si risolve in una forma di coltura del tutto analoga a qualsivoglia altra e diversa pianta.

Ciò ritenuto, si deve notare come il fulcro argomentativo del ragionamento del Collegio si incardina proprio sulla differenza ontologica e giuridica fra la vendita di semi e la coltivazione degli stessi.

Decisive e conclusive appaiono due osservazioni, pienamente condivisibili.

1) In primo luogo il discrimen fra i due momenti comportamentali

1a)

Da un lato - ed anteriormente in un’ipotetica sequenza temporale – si pone, infatti, la vendita di semi come attività assolutamente priva di contenuto illecito.

Essa non può venire considerata, assolutamente, un antecedente storico, necessario sul piano eziologico, posto in essere dall’agente con piena coscienza e volontà di pervenire – in fase successive – sia alla coltivazione, che alla germinazione della pianta, dalla quale trarre, indi, il prodotto tossicologicamente perfetto, cioè rientrante nella tabella delle sostanze stupefacenti.

La ragione di questa esclusione è semplice a va rinvenuta nella nozione legale di stupefacente.

E’ stato, infatti, dimostrato che i semi sono esclusi dalla nozione legale di Cannabis (e, quindi, di sostanze stupefacenti), giusto il disposto della L. 412 del 1974, art. 1, comma 1, lett. B; della Convenzione unica sugli stupefacenti di New York del 1961 e, da ultimo, della tabella I Decreto Ministero della Salute 11 aprile 2006.

“…Il termine canapa è, infatti, riferibile unicamente alle sommità fiorite o fruttifere della pianta ad esclusione dei semi e delle foglie non accompagnate dalle relative sommità…”.

Va ricordato in proposito che questa posizione è stata propugnata ed esplicitata dal Tribunale monocratico di Benevento (sentenza 7 Febbraio 2008, n. 74) [3], il quale in maniera chiara ed esatta, ha statuito che “La vendita di semi non è idonea, quindi, a ledere il bene giuridico protetto in linea generale dalla legislazione sugli stupefacenti, non potendo ai predetti essere attribuito il benché minimo effetto drogante”.

Ergo, appare indiscutibile che la vendita di semi concretizza un momento comportamentale antecedente che non si fonde, nè può essere confuso, in alcun modo, con la attività di coltivazione.

Né si può, in alcun modo, seriamente sostenere – in carenza di rigorosi e pregnanti elementi di prova – che la causale che sottende alla vendita sia quella di porsi in eziologico rapporto con l’uso e la diffusione di stupefacenti.

Si potrà, forse, discutere e polemizzare sull’ipocrisia insita nell’affermazione che lo scopo della vendita dei semi sia, ufficialmente quello del collezionismo; è, però di tutta evidenza che altra causale non può essere rinvenuta.

Va, poi, considerato che - nella fattispecie sottoposta all’esame del Tribunale di Ferrara – l’attività commerciale venga svolta in parte preponderante via internet.

Non si tratta di particolare di poco conto, atteso che tale profilo postula la valutazione della condotta del commerciante in relazione alle accortezze ed agli strumenti di prevenzione che devono essere assunte in proposito specificatamente.

Assume, così, rilevanza, il controllo del sito della società (che è, certamente, lo strumento mercantile per antonomasia).

L’ormai invalso uso di finestre pop up, riportanti messaggi di ammonimento agli utenti, in ordine sia ai divieti legislativi vigenti, sia ai limiti di utilizzazione dei prodotti che si possono acquistare, (corredate poi, dall’invito a desistere dall’uso di droghe), certamente, assolve alla ulteriore funzione di una corretta preventiva informazione e, sul piano processuale, funge da prova storica e documentale che permette di escludere che, nel caso in disamina, sussistesse l’elemento psicologico sia riguardante il concorso nella successiva condotta coltivativa (art. 73), sia – in via residuale – sia riguardante la gradata ipotesi di cui all’art. 82.

1b)

Da altro canto, va segnalata la totale indipendenza ed autonomia del comportamento che viene tenuto dell’acquirente.

Esso, dunque, sfugge a qualsiasi forma di controllo preventivo (successivo non è neppure pensabile) da parte del venditore.

E’ questa, una conclusione assolutamente elementare nella sua logicità, ma, comunque, decisiva.

Ne consegue, pertanto, la considerazione che una volta, che venga, infatti, escluso che il dante causa (venditore) non sia assolutamente legato, attraverso il denominatore di un comune contesto soggettivo, all’acquirente, appare indubbio che le volontà e le consapevolezze di entrambi sono – se tra loro rapportate - del tutto differenti, libere ed autosufficienti e non si influenzano reciprocamente in alcun modo.

Uscita, così, dalla sfera di disponibilità del commerciante, la destinazione cui la res (i semi nella fattispecie) è destinata, ad opera esclusiva dell’acquirente, non può involgere a ritroso neppure in maniera minima il primo agente.

La scelta di finalizzare una cosa ad un uso espressamente vietato dalla legge, con consequenziale deviazione e deragliamento della condotta iniziale dal binario di originaria liceità, poichè configura un’opzione attribuibile – come nel caso che ci occupa - in via esclusiva all’acquirente, non può dispiegare effetti, per cosi dire, retroattivi.

Un’applicazione che si ponesse all’opposto di questo principio dell’autonomia delle condotte individuali, dunque, comporterebbe un’indebita ed inammissibile estensione del già discutibile principio di oggettivizzazione della responsabilità penale, sacrificando, così, in toto il profilo personalistico della stessa.

2) In secondo luogo, si deve notare come il Tribunale dissenta con nettezza dalla posizione della pubblica accusa, la quale ha ipotizzato che la vendita dei semi acquisisca connotati di antigiuridicità penale, se abbinata ai ricordati strumenti coltivativi.

Il giudice della cautela – in questo frangente – formula il proprio giudizio articolandolo tre distinti piani.

2a)

In primo luogo, il Collegio qualifica felicemente, utilizzando in maniera appropriata gli aggettivi “asettici” e “neutrali”, le complessive modalità di messa in vendita dei prodotti citati.

Nell’atteggiamento commerciale degli indagati non vi è strepitus fori, né, d’altronde, si rinvengono forme altisonanti o ridondanti che magnifichino l’uso di prodotti derivati dalla coltivazione, elementi che, cioè, possano dimostrare un atteggiamento palesemente posto “sopra le righe”, e, dunque, tale, quindi, da superare irreversibilmente lo spartiacque fra condotta lecita e condotta illecita.

2b)

In secondo luogo, viene fissata, con precisione, la soglia temporale di punibilità della condotta illecita, che si sostanzia e concretizza nel momento coltivativo vero e proprio.

Ergo, ribadendo la netta distinzione, cui si è fatta menzione al precedente punto 1a), il Tribunale valuta la condotta di vendita come – al più – teoreticamente inseribile nel contesto di quegli atti preparatori, peraltro, penalmente irrilevanti della successiva ipotetica azione illecita, in quanto ultronei ed inidonei rispetto all’ipotesi di tentativo punibile.

Sul punto della distinzione fra atti preparatori e delitto tentato si osserva che la giurisprudenza ha affermato che “Ai fini della sussistenza del delitto tentato, occorre che, sulla base di una valutazione ex ante, gli atti compiuti, anche se meramente preparatori o solo parziali, siano idonei ed univoci, ossia diretti in modo non equivoco a cagionare l'evento lesivo ovvero a realizzare la fattispecie prevista dalla norma incriminatrice, rivelando così l'intenzione dell'agente di commettere lo specifico delitto.[4]

Ad colorandum, va, poi, precisato che questo orientamento appare coerente con una esegesi rigorosa dell’istituto del tentativo di reato, così come concepito all’interno del complessivo sistema dato dal codice penale, porti a conferire valenza unicamente alla locuzione “atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto".

Vi è, però, da rilevare, che pur non essendo prevista normativamente una distinzione fra atti preparatori e atti esecutivi, si possa ricorrere ad un criterio, per cosiddire, legale, atto alla qualificazione del tentativo punibile.

Esso si compone di plurimi requisiti tutti necessari e richiesti.

Il criterio in parola consiste, dunque, nell’esame dello sviluppo assunto dalla condotta, degli elementi distintivi del delitto consumato attraverso l'univocità della direzione degli atti compiuti verso la commissione di tale delitto e della contemporanea idoneità degli atti stessi a commetterlo.

3b)

Coerentemente con le premesse svolte e delle quali si è fatta ampia menzione, il Tribunale esclude che la vendita dei semi possa essere elemento sussumibile nella configurazione dell’istituto giuridico del tentativo di coltivazione.

Quella del tentativo, costituirebbe, comunque, un’ipotesi, peraltro, già rifiutata e criticata da un’antica pronunzia del Tribunale di Frosinone [5] che affermò – seppure discutibilmente sotto altri aspetti - che la coltivazione non autorizzata di canapa indiana “…è un reato di pura condotta, che si perfeziona con la sola azione del coltivare la canapa indipendentemente dal suo risultato naturale; pertanto si deve escludere sia il reato impossibile sia il tentativo nell'ipotesi di mancanza di principi attivi di stupefacente nella pianta di canapa andiana, essendosi il reato già consumato con la sola azione del coltivare.”

4b)

Da ultimo, ma per nulla secondario, viene richiamata nel complessivo contesto delibativo – ancorchè fuggevolmente ed implicitamente – la rilevanza dell’elemento psicologico.

Non mette conto, quindi, spendere eccessive considerazioni per sottolineare, comunque, come la struttura complessiva di un reato non possa minimamente prescindere dalla sussistenza di tale fattore necessario componente lo scheletro del reato.

La decisività dell’investigazione, sul punto in parola, appare ancor più decisiva della dimostrazione dell’esecuzione della condotta materiale.

In situazioni del tipo di quella in esame, la esistenza o meno di una volontà cosciente e consapevole dell’agente, quale indubitabile e specifica espressione di un disegno illecito predeterminato, rispetto al quale la singola azione si pone in nesso di strumentalità e, ancorchè lecita assume stimmate penalmente rilevanti, deve essere accertata con rigore ed al di là di ogni ragionevole dubbio.

L’importanza di tale elemento costitutivo del reato, nell’economia ricostruttiva di una condotta, è senza discussione fondamentale.

Esso è in grado, di per sé solo, di potere fornire qualificazione sul piano giuridico e sistematico ad una condotta, attraverso l’attribuzione alla stessa di un significato di disvalore ed antigiuridicità, non altrimenti conferibile.

C) CONCLUSIONI

Pur volendo prescindere dal ribadire il favore che la pronunzia deve incontrare – non tanto e non solo per la posizione assunta -, quanto per la coerenza e l’arguzia argomentativa, chi scrive ritiene di dovere concludere le considerazioni sin qui sviluppate, osservando come il collegio costituito ex art. 324 c.p.p., sottolineando l’apprezzabilità della nota di chiusura dell’ordinanza.

Essa ribadisce la netta distinzione fra il comportamenti indiscriminato e criminoso di colui (o coloro) intenda svolgere un’attività di cieco ed irresponsabile proselitismo e, invece, chi intenda approcciarsi alle tematiche antiproibizioniste in modo serio, valutando il problema dei plurimi utilizzi della cannabis (non dimentichiamo ad esempio l’utilizzo e la sperimentazione autorizzata anche dalla Regione Marche nell’ambito di terapie antalgiche) come momento di informazione ed espressione culturale.

(Altalex, 22 dicembre 2008. Nota di Carlo Alberto Zaina)

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